21 March 2006

Ecco perché scegliere Linux


la caccia


Tratto da: la caccia , caccia all'ideologico quotidiano


De senectute

Accendo il computer e apro il programma di scrittura. Inopinatamente, sullo schermo mi compare un box che avverte che l’antivirus non è aggiornato. Non sono state scaricate le definizioni più recenti e se non si vogliono correre dei brutti rischi è meglio provvedere seduta stante. Io, a dire il vero, ho la vaga impressione di aver provveduto in merito un paio di giorni prima, ma con tutte le maledizioni che girano in rete la prudenza non è mai troppa e mi accingo disciplinato alla bisogna. Apro il pannello di controllo dell’antivirus, sul quale, effettivamente, brillano dei minacciosi segnali di pericolo, e avvio la procedura richiesta. Terminata la quale, mi si materializza davanti un altro box che assicura che era inutile che mi disturbassi, grazie, perché tutto era già perfettamente aggiornato. Ritorno, un po’ perplesso, al mio Word e rieccoti di nuovo il primo box, che ripete che l’antivirus non va e devo aggiornarlo. E così via, in una malefica sequenza autoricorsiva e autocontradditoria che, oltre a impedirmi di lavorare, mi riduce in un grave stato di agitazione nervosa. Sarà l’età, ma è appunto questo l’effetto che mi fanno sempre le difficoltà tecnologiche.




Calma e gesso, comunque. Smanetto un po’ nel vano tentativo di rimediare al danno e poi faccio il numero telefonico dell’assistenza clienti della casa produttrice del software. Passo la solita mezz’ora ad ascoltare musichette insulse e voci femminili registrate, una delle quali mi raccomanda di tener pronta la carta di credito perché il servizio è a pagamento, e, finalmente, vengo messo in contatto con un giovanotto gentilissimo. Fornisco i dati richiesti ed espongo il problema. “Ah, sì, capisco” dice lui. “E qual è il suo antivirus?” “Be’” gli rispondo “è il vostro, versione 2004”. Lui sospira e anche al telefono si capisce che sta scuotendo la testa. “No” dice poi in tono di rammarico. “Alla versione 2004 l’assistenza non la facciamo. È troppo vecchia.” “Come, troppo vecchia?” ribatto. “Siamo agli inizi del 2006, l’ho comperata meno di due anni fa, nel maggio scorso mi avete fatto pagare un abbonamento annuale e adesso mi dite che è troppo vecchia? Ma che senso ha?” “Eh” dice lui “sa bene che queste cose vanno in fretta: è cambiato tutto, la Microsoft, i computer, tutto. Deve proprio comprare la versione 2006. Altrimenti – aggiunge come a malincuore – può sempre visitare il nostro sito, sezione risoluzione problemi, dove troverà tutte le indicazioni necessarie per risolvere il caso da sé. Ma al telefono… al telefono proprio non si può.”

Al loro sito, in realtà, mi ero già connesso prima, e non ci avevo capito la classica fava. Che volete, il gergo delle istruzioni informatiche trascende le mie capacità di comprensione. Per cui, cerco di impietosire il tipo. “Ma come?” gli chiedo. “Fino a ieri funzionava benissimo, non ho mai avuto problemi…” “Eh” mi interrompe lui sbrigativo. “Sarà un virus.” E prima che abbia il tempo di fargli notare che se la colpa è di un virus questo significa che il loro antivirus fa schifo, si congeda educatamente e interrompe la comunicazione.

Abbasso la cornetta e guardo sconsolato il mio computer. Ne ero tanto orgoglioso, fino a pochi minuti prima, e adesso mi hanno spiegato che in due anni si è ridotto, praticamente, a un’anticaglia, come la versione 2004, riposi in pace, o un’auto degli anni ’60, che se si rompe qualcosa nessuno è più in grado di ripararla. Sì, certo, tutto è relativo e il giornale dell’altro ieri è indubbiamente già vecchio, e poi dipende dai criteri, per cui il maschio umano cessa di essere giovane a venticinque anni secondo il Leopardi e resta tale in Cicerone fino ai sessanta (bei tempi quelli…), ma, insomma, per un prodotto di alta tecnologia, che esige, per di più, una costante opera di aggiornamento, avevo sperato in un’aspettativa di vita un poco più estesa. Posso sempre fornirmi della versione 2006, naturalmente, non costa nemmeno troppo, ma ho sentito dire che è parecchio “pesante”, come si dice in gergo, e chissà mai se funzionerà su un venerabile rudere come l’oggetto che mi trovo davanti. Qui finisce che devo cambiare anche il computer. E, a parte il problema del costo, su quelli nuovi non c’è più il drive per i floppy e tutto il mio lavoro degli ultimi vent’anni è salvato su dischetti e come farò a recuperarlo? E gli indirizzi della posta dove cavolo li ritrovo? E nell’immediato come potrò, me meschino, preparare il pezzo per la “Caccia” di domenica prossima? Insomma, quei bidonisti da cui ho comperato la versione 2004 mi hanno davvero messo nei guai fino al collo e quasi quasi gli faccio causa.

Poi, naturalmente, con qualche aiutino sono riuscito a far funzionare Word, sia pure a scosse e saltelli, una breve riflessione sulla disparità delle mie risorse e quelle di una multinazionale del software mi ha tolto qualsiasi velleità di ritorsione legale e mi è sembrato chiaro che il partito migliore fosse, sì, quello di cambiare antivirus, ma con il prodotto di un’altra casa, nella vaga speranza di trovare una controparte meno iugulatoria. Ma non è questo, si capisce, che importa. E neanche che l’episodio metta in luce abbastanza bene quali siano le tecniche in uso per spremere a dovere il consumatore e suggerisca qualche ipotesi sul perché ci siano in giro tanti virus e chi ce li mette, visto che la loro diffusione, evidentemente, è del tutto funzionale all’espansione del mercato. No. A essere veramente terrificante è l’idea che quel giovanotto, a giudicare dal tono e dall’espressione, al fatto che un prodotto di quel tipo e di quel prezzo potesse considerarsi irrimediabilmente obsoleto dopo ventidue mesi scarsi ci credeva davvero. Che la sua cultura – che, ovviamente, non è solo sua – non fosse in grado di fargli capire che a questi ritmi dissennati di consumo e di produzione la nostra società non può reggere.

Certo, siamo creature effimere ed effimeri sono i nostri manufatti. È una banalità che ciascuno può considerare, a sua scelta, lamentevole o confortante. Ma che non giustifica – ne converrete – la pratica di progettare intenzionalmente degli articoli destinati a usurarsi a breve, per essere sostituiti con altri consimili se non peggiori e così via nel continuo inseguimento del profitto a qualsiasi conto. Perché un’altra banalità altrettanto vera è quella per cui le risorse di cui disponiamo sul pianeta sono limitate e non è proprio il caso di sciuparle alla grande, come si fa quando si produce qualcosa con l’intenzione di buttarla via dopo pochi mesi. E non è un problema di mercato, perché il mercato, notoriamente, in sé non esiste: al massimo è un problema di mercanti, e di mercanti avidi e irresponsabili, che affidano le proprie prospettive a un progetto di pura e semplice dilapidazione. L’idea dell’usa e getta può essere attraente, da un certo punto di vista, ma ha il difetto di mettere in moto una specie di processo di entropia produttiva, di consumo delle risorse e progressiva crescita dei rifiuti, alla fine del quale resteranno solo i rifiuti. Andando avanti di questo passo ci ritroveremo presto tutti in braghe di tela, beninteso se non avremo distrutto tutte le sostanze e gli organismi di cui ci si serve per fare la tela.


Ciò premesso, se qualcuno mi saprà consigliare un buon antivirus di durata appena ragionevole gliene sarò grato.

ogni domenica dalle 12.30 alle 13.00
a cura di Felice Accame e Carlo Oliva
caccia(at)radiopopolare.it
C.O.

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Io lo so cosa stai pensando.
Lo scrivo, non lo scrivo, quasi quasi lo scrivo. Ma no dai...
E' lo stesso che penso anche io quasi ogni volta.
Ma tu prova, prova a lasciare una traccia.
Non sarà invano.

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